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TRENTINI NEL MONDO: LA STORIA MATTEO VICENTINI FRA EUROPA E AFRICA




TRENTO - Matteo Vicentini, trentino ed ingegnere, da anni lavora all’estero. In queste ore ha raccontato a Mondo Trentino, ufficio della Provincia Autonoma di Trento impegnata a favore dell’emigrazione, come ha passato il suo ultimo anno e mezzo: un periodo movimentato e intenso, caratterizzato da viaggi per lavoro all’estero, rientri in Trentino, la malattia dovuta al Coronavirus, i contatti con la famiglia a Rovereto e la compagna che vive in Austria. Ora si sta delineando un futuro più roseo fortunatamente per lui. Un lavoro fra l'Europa e l’Africa, che gli consente di vedere spesso i suoi bambini, coltivare i suoi affetti ed i suoi interessi, ma anche di confrontarsi costantemente con un ambiente di lavoro, virtuale e reale, stimolante e multiculturale, ritrovando così una nuova normalità ma con la valigia sempre pronta. Di seguito la sua storia pubblicata su MondoTrentino.net: “L’opportunità che mi offre MondoTrentino è quella di ripensare, mentre ancora le cose non si sono assestate, a quello che nel 2020 abbiamo passato, a quello a cui sono andato incontro per le mie scelte personali, forse per la mia voglia di sapere o per un po’ di spregiudicatezza. Era proprio a cavallo del capodanno 2020 quando diedi le dimissioni. Un buon lavoro all’ENEL, sede di Feltre, come responsabile della Manutenzione. All’ENEL avevo lavorato per 3 anni in Brasile per poi ritornare in Nord Italia, e forse mi sono sentito limitato dalle procedure sempre più opprimenti, o dalla carenza di prospettive. Fatto sta che a 46 anni ho deciso di andare a lavorare a Nairobi, prendendo servizio alla fine di febbraio. Sono ingegnere idraulico, e mi sono sempre occupato di impianti idroelettrici. In Africa c’è molto da costruire, pensai, ed anche la ditta di Nairobi che mi ha assunto aveva apprezzato le mie competenze. Ma questo lavoro parte subito col piede sbagliato. All’aeroporto di Venezia il volo via Istanbul è cancellato: già in mezzo mondo non ne vogliono sentir parlare degli Italiani, a contendersi assieme coi cinesi il primato degli untori di questa nuova pestilenza. Nel frattempo mi telefonano da Nairobi dicendomi che forse sarebbe stato meglio che avessi rimandato il viaggio. “E vai! Ho perso il lavoro ancor prima di iniziare” ho pensato. Con rassicurazioni sul mio stato di salute e sul fatto che mi sarei messo in quarantena fiduciaria, sono partito ugualmente, con un itinerario “No Alpitour” si sarebbe detto un tempo. Ricordo la quarantena di Nairobi come una delle esperienze più rilassanti della mia vita: piscina, palestra, ristorante e wi-fi: who can ask for anything more? Il clima dell’altopiano è meraviglioso, con bassissima umidità ed escursione termica, quasi sempre tra i 25 ed i 27°C. Unico divieto: quello di andare in ufficio, per ovvi motivi. Le notizie in arrivo dall’Europa, intanto, sono terrificanti: lockdown, ma soprattutto malattia e morte. Passate due settimane, posso finalmente presentarmi in ufficio ma anche in Kenya, con i casi accertati in numero comunque non elevato, si iniziano ad operare misure di restrizione, con la chiusura dei ristoranti ed il coprifuoco. Di lì a poco, la ditta per cui lavoro adotta una soluzione drastica: la chiusura degli uffici; sine die. Decido dunque di tornare in Italia, dove ho una mamma e due figli, mentre in Austria mi attende anche la mia compagna. Tutti sono preoccupati per una situazione difficile e per una mina vagante che, col senno del poi, ha forse solo seguito un capriccio, un desiderio di evasione. Il volo di rientro è di quelli della “Farnesina”, con un sacco di anziani che da Malindi tornano nei loro bilocali di Mestre o di Lambrate. Mi aspetta una nuova quarantena, in Italia, ed un grosso punto interrogativo sul futuro. Quando ti occupi di cantieri e gestioni di impianti in esercizio è un po’ difficile fare il telelavoro. Lo smart working sarebbe in effetti possibile, con sopralluoghi e riunioni mirate, ma Rovereto e Nairobi non sono proprio ad un tiro di schioppo. D’accordo con il mio capo, continuo ad occuparmi di alcune questioni relative alla progettazione, cose che riesco a fare anche da casa, ma ho tempo per leggere e studiare ed un antico sogno può realizzarsi. Avrei da sempre voluto laurearmi in geografia, ma la saggezza dei miei genitori, Carlo e Alice, mi ha fatto mettere insieme il più utile al “sufficientemente dilettevole”, per cui ho optato per il nobile studio dell’ingegneria, prosaico ma, in prospettiva, ben retribuito. Quando ancora lavoravo in Italia mi ero iscritto a Geografia all’Università di Bologna ed ora, grazie alla DaD ed al tempo libero, lo scatto in avanti diventa possibile. Il ritorno in Africa a settembre mi consente di occuparmi come si deve di alcune questioni tecniche complesse, che necessitano la presenza in sito, e mi tocca l’Uganda, paese in cui abbiamo alcune centrali elettriche in funzione ed alcuni grossi cantieri. Dovrei tornare per la tesi, che hanno fissato a novembre, e sono in leggero imbarazzo con il mio capo: cosa gli racconto? Torno giusto il tempo di sentirmi dire dalla mia relatrice, la professoressa Magnani, che le tesi saranno discusse a distanza visto che la seconda ondata è alle porte. Torno dunque in Uganda, ma, probabilmente durante il viaggio, contraggo il CoViD. I sintomi sono blandi ma le regole di cantiere ferree: due settimane con il gendarme alla porta, il rancio su una sedia davanti all’ingresso di un loculo che è un po’ pretestuoso definire camera. Dalle stelle del residence di Nairobi alle stalle del countryside ugandese, le esperienze forti non sono mancate. Proprio durante questo periodo di isolamento, grazie ad un wi-fi mobile portato fuori dalla stanza da un’anima pia, riesco a laurearmi. La lode me la sono meritata quantomeno per le condizioni in cui ho parlato di un argomento molto interessante, le vie di pellegrinaggio e la via Francigena (vedi articolo www.geomagazine.it/2020/10/24/riscoprire-oggi-il-significato-della-via-francigena/), un lavoro che diverrà presto un libro, edito da Erickson. Il viaggio di ritorno, in clima pre natalizio, è un’altra Odissea: dopo lo scalo a Doha arrivo ad Atene, ma non posso più proseguire per una serie di voli cancellati. Poco male, penso, mi fermerò in hotel. Ed invece non mi è consentito mettere piede su suolo greco, per le regole dettate dalla pandemia che in Grecia volevano una pre-registrazione fatta almeno il giorno precedente. Fermo nel limbo della sala d’aspetto ho atteso un volo che mi portasse in Italia o in Austria sentendomi intrappolato in dinamiche assurde già descritte in un famoso film con Tom Hanks. Il giorno dopo sono ripartito per Vienna dove ho potuto riabbracciare la mia compagna, mentre per i miei bambini ho dovuto attendere l’anno nuovo. Fortunatamente l’anno nuovo mi ha portato una soluzione lavorativa più idonea al contingente: una ditta australiana in cerca di un progettista di centrali elettriche in Africa, ma che fosse disponibile a lavorare per il primo anno dall’Europa, con trasferte mirate. Non avendo più cantieri da seguire e in un’ottica di modalità di lavoro “in divenire”, mi è sembrata una soluzione eccellente. E dunque quali sono i progetti per il futuro? Lavorare ancora in Africa, certo, e magari con questa formula di new normal che ci consente di inseguire le nostre ambizioni, le nostre “eterotopie” direbbe un geografo, ma rimanere anche in contatto stretto con i propri affetti e con la propria terra. La prospettiva di un lavoro che mi porta all’estero per qualche mese all’anno facendo base a casa mia sembra davvero interessante, perché mi consente di vedere spesso i miei bambini, coltivare i miei affetti ed i miei interessi, ma anche confrontarmi costantemente con un ambiente di lavoro, virtuale e reale, stimolante e multiculturale. (aise)

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