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Sguardo d’artista”: giorgione, carpioni, guardi e canaletto

A confronto tra mistero, mito e invenzione




BRESCIA - Sarà allestita dal 5 novembre 2021 al 13 marzo 2022 l’esposizione temporanea “Sguardo d’Artista. Giorgione, Carpioni, Guardi e Canaletto tra mistero, mito e invenzione”, ospitata nella sala delle temporary exhibitions integrata al percorso espositivo permanente della Casa Museo della Fondazione Paolo e Carolina Zani a Cellatica, in provincia di Brescia. “Un nuovo progetto espositivo che parte, ancora una volta, dalla precisa volontà di valorizzare il patrimonio della Casa Museo, fonte inesauribile di ispirazione per percorsi culturali inediti e trasversali. Il museo, con le sue collezioni, resta infatti il nostro punto di riferimento”, ricorda Massimiliano Capella, direttore della Casa Museo. La mostra-dossier prende spunto infatti dal dipinto esposto nella Sala del Ridotto (camera da letto della Casa Museo) raffigurante “La presentazione prima del matrimonio”, opera del 1750 circa di Pietro Longhi (Venezia, 15 novembre 1701 – Venezia, 8 maggio 1785). L’opera è un’istantanea del ricevimento prima del matrimonio tra Giovanni Grimani e Caterina Contarini (celebrato il 27 aprile 1750 a San Trovaso) e introduce un’usanza assai diffusa: la presenza dell’autoritratto dell’artista nella scena raffigurata. L’uomo in piedi, con marsina verde, dietro il padre della sposa, è tradizionalmente identificato con lo stesso Pietro Longhi, vista la stretta somiglianza con altri autoritratti conosciuti dell’artista. Le opere scelte per l’esposizione consentono, data l’ubicazione centrale nel percorso espositivo della Casa Museo, di creare un dialogo con alcuni dipinti selezionati della collezione permanente, in particolare con quelli di Canaletto, Bellotto, Tiepolo e Guardi, spostando però il punto di osservazione dello spettatore dallo stile dell’artista alla sua identità. I ritratti selezionati consentono infatti di avviare una riflessione sull’immagine dell’artista in area veneta del XVII e XVIII secolo, tra invenzione, celebrazione e un pizzico di mistero. Le quattro opere esposte offrono un ventaglio completo della ritrattistica in età barocca. Se l’opera di Pietro della Vecchia è infatti sostanzialmente un ritratto di invenzione, quella di Carpioni è invece un ritratto autocelebrativo, funzione confermata anche dall’esistenza di numerose versioni realizzate dall’artista. Carpioni volle mettere in evidenza in questo suo autoritratto tanto l’accento introspettivo quanto l’attenzione particolare ai moti dell’animo. Decisamente commemorativo appare il ritratto di Canaletto realizzato da Antonio Visentini per il frontespizio della serie “Prospectus Magni Canalis Venetiarum”. Una sorta di omaggio di Pietro Longhi al collega Francesco Guardi è infine il bel ritratto del 1764 nel quale il pittore è immortalato nell’intimità, come in un’istantanea rubata nel momento in cui l’artista era impegnato a dipingere nel suo atelier. LE OPERE Pietro Della Vecchia (Vicenza? 1602/03 – Venezia 1678) Giorgione con un teschio di cavallo Il dipinto, in buono stato di conservazione, è stato acquistato sul mercato antiquario nel 1986, con la corretta attribuzione a Pietro della Vecchia. Come tale è stato analizzato da Pietro Zampetti in una perizia del 1988 riproposta a stampa nel 2003: in essa si sottolineava il rapporto con l’Autoritratto di Giorgione “di cui parla il Vasari e del quale restano alcune versioni, la più bella delle quali, forse autografa del Maestro, è quella del museo di Braunschweig” (Zampetti, 2003, pp.124-125). In effetti tale correlazione è evidente, e conferma la ben nota consuetudine del Vecchia a rimeditare l’opera del pittore di Castelfranco, effettiva o ritenuta tale nel XVII secolo. Nella tela l’autore dimostra di conoscere non solo l’impostazione dell’originale tedesco (giuntoci in stato frammentario, ma noto nell’insieme grazie a un’incisione di Wenceslaus Hollar del 1650) ma anche altre testimonianze dell’iconografia giorgionesca. Se infatti l’adozione del parapetto scalato rinvia chiaramente a quanto appare nella stampa dell’Hollar e la resa della testa che emerge dall’ombra presuppone la conoscenza della tavola originale o di qualche copia antica di essa (come quelle a Budapest e ad Hampton Court), d’altra parte la presenza dei baffi attesta che il maestro era al corrente di un ulteriore filone dell’iconografia giorgionesca, forse derivante da un ritratto immaginario dell’artista eseguito da Tiberio Tinelli verso la metà degli anni venti del Seicento (si veda Bottacin, 2005, pp. 94-95). Tale filone si diffuse attraverso l’incisione riprodotta nelle Maraviglie dell’arte di Carlo Ridolfi (1648), replicata in un esemplare firmato da Giambattista Georgi e impresso da Matteo Bolzetta a Padova (in Maschio, 1978, p. 6). E’ singolare osservare che la crescita dei baffi sul viso seicentesco di Giorgione – non documentata nell’originale di Braunschweig e neppure nella traduzione a stampa del Coriolano per le Vite del Vasari – sia l’avvio di un processo di irsutismo che nei secoli XVIII e XIX culminerà nella fluente barba descritta in varie stampe e tele correlate (si vedano in Manzato, 1994, pp. 283-284). Non si può escludere che questo fenomeno dipendesse dalla supposta origine del maestro dalla famiglia Barbarella, attestata da una perduta lapide del 1638 nel duomo di Castelfranco e divulgata da Ridolfi nelle Maraviglie dell’arte. Che esistesse un Autoritratto di Giorgione con un cranio di cavallo non è escludibile a priori: quest’ultimo dettaglio si ritrova nel fregio affrescato dal maestro in casa Marta Pellizzari a Castelfranco, ma soprattutto in un inventario del 1685 pubblicato da Baldinucci si segnalava appunto un Autoritratto di Giorgione “con cranio di cavallo” che faceva il paio con un “ritratto di una vecchia che tiene una carta in mano ed è sua madre”, un dipinto che verrebbe da collegare alla Vecchia ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (cfr. Garas, 1966, p. 56, e Aikema, 1990, p. 46). Tuttavia l’esistenza di un simile prototipo appare piuttosto improbabile per due ragioni. La prima è che nella più antica segnalazione della Vecchia a noi nota (un inventario del 1569) la si descrive con una copertura raffigurante “un’huomo con una veste di pelle negra” (Anderson, 1979, p. 643), e se in questo vi fosse stato anche un dettaglio inusuale come un cranio di cavallo sarebbe stato precisato proprio a scopo identificativo. La seconda è che fino ad allora le fonti – tra tanti presunti originali del maestro di Castelfranco - non avvertirono mai dell’esistenza di un Autoritratto con un cranio di cavallo e c’è da credere che, nel contesto di inarrestabile mitizzazione del pittore che si registra nella Venezia del XVII secolo, se mai si fosse avuta anche solo notizia di un simile esemplare essa sarebbe stata senza dubbio raccolta e divulgata. D’altro canto va osservato che questo elemento iconografico – da non confondersi con il bucranio, che viceversa qualche fortuna tra ‘400 e ‘500 l’ha riscossa (dalle inserzioni decorative nei portali, nei fregi e nei monumenti sepolcrali, alle riprese librarie nel Polifilo, fino all’adozione da parte di Achille Bocchi: de Tervarent, 1956, col. 55) – compare viceversa in vari dipinti proprio del Vecchia, abbinato a un teschio umano. Mi riferisco al Vecchio meditabondo nella Galleria Estense di Modena (Bentini, 1996, p. 279), alla tela nel castello del Wawel a Cracovia (100 Finest Paintings, 2005, p. 48), a una redazione di bottega già sul mercato antiquario inglese (Aikema, 1990, fig. 97) e ancora al “Quadro con Uomo vecchio, e una Giovine e nel mezzo una testa di cavallo di Pietro Vecchia” inventariato nel 1759 in casa di Alvise IV Mocenigo a Venezia (Levi, 1900, II, p. 236 n. 28; Aikema, 1990, p. 164). Si tratta di raffigurazioni allegoriche enigmatiche, imperniate specificamente sul motivo del cranio di cavallo e di difficile spiegazione: è possibile tuttavia che colga nel segno l’interpretazione in chiave alchemica suggerita per l’esemplare polacco, dove si alluderebbe alla creazione di un Homunculus, ossia un essere umano artificiale che alcuni testi magici seicenteschi avrebbero dichiarato riproducibile all’interno di un cranio equino. Se così fosse, la sua riproposizione da parte del pittore non stupirebbe alla luce sia delle sue eterodosse frequentazioni lagunari (e ci si riferisce in particolare all’Accademia degli Incogniti) sia delle tematiche misterosofiche da lui sviluppate in più occasioni, talvolta anche in termini grotteschi: si pensi agli Alchimisti dei Musei Civici di Padova, all’eccezionale episodio di Stregoneria già a Londra illustrato da Aikema (1990, fig. 60) e alla parodia alchemica da me illustrata in altra occasione (Dal Pozzolo, 2005, pp. 85-86). Che nella tela ora discussa si possa riconoscere un esercizio di sintesi tra spunti dichiaratamente giorgioneschi e iconografie tipiche del Vecchia sembra dunque altamente verosimile, anche in considerazione del carattere dell’emulazione giorgionesca qui esibita, che corrisponde a quanto specificavano testimoni diretti vicini all’artista come Marco Boschini. Questi invitava i “Dilettanti”, ad avere “l’occhio a questo Vecchia, perché incontrerano tratti di questo pennello trasformati nelle Giorgionesche forme, in modo che resteranno ambigui se siano parti di Giorgione, o imitazioni di quello; poiché anco alcuni dei più intendenti hanno colto de’ frutti di questo, stimandoli dall’Arbore dell’altro. E queste imitazioni non sono coppie, ma astratti del suo intelletto, bensì per imitare i tratti Giorgioneschi” (Boschini, 1676, ed. 1966, p. 710). Tale atteggiamento da parte del pittore - ossia evocare lo stile altrui senza copiarlo - era estremamente temuto nel circuito collezionistico dell’epoca, e non pochi caddero nei suoi tranelli visivi. Se oggi nessun competente in buona fede potrebbe credere che una tela come questa sia un originale di Giorgione, è tuttavia da dire che esistono ancora non pochi lavori del Vecchia in collezioni pubbliche e private considerati, quanto meno, di “Scuola Veneta del Cinquecento”. In effetti la sua figura è esemplificativa di un certo modo di reinterpretare la grande tradizione pittorica veneziana del Cinquecento nel Seicento (su di lui Aikema, 1990, 2001, 2003). Con la scomparsa di Tiziano (1576), Paolo Veronese (1588), Jacopo Bassano (1592) e Jacopo Tintoretto (1594), non solo in laguna ma più in generale nel territorio veneto si percepì chiaramente che una stagione altissima e non ripetibile si era definitivamente chiusa. Lo si intese sia a livello collezionistico (con gli originali di tali maestri contesi a peso d’oro in tutta Europa), sia nella riflessione critica (con gli storiografi che scatenarono una tardiva e spesso violenta reazione all’implicita svalutazione della Scuola Veneta propugnata da Vasari nelle Vite), sia sul piano della produzione pittorica. Perché gli artisti vivevano spesso come una competizione persa in partenza il rapporto con i protagonisti del secolo precedente, alle cui composizioni e stili il gusto generale risultava comunque vincolato. Ne sortirono crisi profonde d’identità - con rare reazioni autonome in chiave alloglotta (si pensi alla triade dei maestri veronesi del primo ‘600: Bassetti-Turchi-Ottino) - ma anche con risposte ambigue e provocatorie come quella del Vecchia, che dell’acquisizione dei segreti pittorici dei maestri antichi fece una vera e propria specialità realizzativa, presto elogiata dai Ciceroni locali. E non era il solo: un caso meno noto ma non meno interessante è quello di Giambattista Volpato, per una vita intera all’inseguimento ossessivo dei modelli bassaneschi (Bordignon Favero, 1994). Talvolta il Vecchia espresse questo suo intento di identificazione e parificazione con gli illustri predecessori anche creando “pseudoautoritratti” per i quali è oggi impossibile stabilire se nascessero come omaggi figurativi dichiarati oppure vere e proprie falsificazioni: in questi casi infatti l’ago della bilancia si sposta a seconda dell’intenzionalità fraudolenta dell’artefice, chiaramente per noi non conoscibile in assenza di una documentazione d’epoca specificamente correlata. Va peraltro ricordato che nel Seicento il mercato degli Autoritratti era in forte crescita per via dell’implementazione della Galleria degli Autoritratti che i Medici stavano attuavando sistematicamente per gli Uffizi. In tale operazione si trovò implicato lo stesso Pietro Vecchia, che assieme al suo sodale Marco Boschini fu ingaggiato in qualità di consulente dal cardinal Leopoldo de Medici. E’ abbastanza famoso un episodio che lo vide protagonista nello smascheramento di un millantato Autoritratto di Giorgione che si era tentato di rifilare all’illustre collezionista, una vicenda che merita di essere ripercorsa. Ebbe luogo tra il 1674 e il 1675, e riguardava una proposta d’acquisto di quindici dipinti antichi che il Cavalier Francesco Fontana, mercante di quadri a Venezia, aveva fatto al Cardinale. Questi, come di consueto, chiese che venissero prima visti da Boschini; che a sua volta sollecitò la presenza del Vecchia. Tra tali opere vi erano due presunti originali di Giorgione (un grande Cristo morto sorretto da un angelo e appunto un Autoritratto) e un Autoritratto di Tiziano. Questi tre pezzi però, al contrario di tutti gli altri, non vennero fatti vedere ai due consulenti: il Fontana dichiarava che erano stati imballati a Treviso per essere spediti in Francia e che semmai avrebbe accettato di inviarli direttamente a Firenze. Il perché di tali difficoltà si capisce quando Boschini e Vecchia riuscirono a intercettare l’“autoritratto” giorgionesco. In una missiva al Cardinale, Boschini così racconta: “in conformità e de comandi dell’A.V. ci siamo trasferiti tutti due alla casa del sig.r Guasconi, e ci è stato mostrato detto ritratto, che di subito questo veduto il Vecchia è stato il primo a interrogarmi cosa mi pare ed io subito li ho risposto che sà meglio di me cosa è detto ritratto; lui mi replicò che li dicessi il mio parere ed io sorridendo li dissi che era superfluo a dimandarmi tal cosa, sapendo lui d’haverlo fatto, si che ancora lui si pose a ridere e confessò che era di sua mano e mi racontò che lo fece ad istanza del già Sig.r Nicolò Renieri già anni trenta due, e che in vero per servire a detto pittore si afaticò per far tutto il suo sapere e che lo fece di sua testa senza valersi di alcuna cosa, né meno di copiarlo da Giorgione, ma ben sì per immitare quel singolare auttore, come in tal maniera veramente il detto Vecchia ha fatte moltissime cose che dano da pensare e anco l’ha inganati molti, siche in tal proposito l’A.V. intende come passa tal negozio; e per questo ora ci acorgiamo che il Sig Cavaliere l’ha inviato a V.A. senza che noi lo vediamo, pensando che la cabala li sortisca … ” (Procacci, 1963, p. 107). Come si presentava quest’opera lo sappiamo dalla descrizione precedentemente inviata dallo stesso Fontana: “Un quadro di mano di Giorgione da Castelfranco cioè il suo proprio ritratto, fatto da lui medesimo, meza figura quanto al vivo, il quale tiene nelle mani uno scheletro d’una testa, alto quarti 5 ½ e largo 4 ½”(Procacci, 1963, p. 98). Una quarta misurava tra i 16 e i 17 cm, il che significa che era di circa 94 x 76 cm. Il circa va qui inteso in termini estremamente larghi: sappiamo infatti che in queste situazioni le opere venivano misurate con un ampio grado di approssimazione, e per di più senza specificare se si comprendeva o meno la cornice. Il dipinto Alessandra è di cm 98,5 x 72 e la tentazione di riconoscerlo nell’oggetto della truffa del Cavalier Fontana è forte, anche perché – com’è stato di recente ipotizzato (cfr. Merling, 1996; Dal Pozzolo, 2007) – pure il cosiddetto Autoritratto di Tiziano è forse identificabile in una di due tele raffiguranti Tiziano certamente di Pietro della Vecchia ora negli Stati Uniti: la più nota è alla National Gallery di Washington mentre un’altra (già creduta un autografo tizianesco da Berenson, 1958, II, fig. 1008) sta sul mercato antiquario. Al pari dell’esemplare Alessandra, si tratta di dipinti che prendono spunto da un perduto Autoritratto originale del cadorino: e precisamente da quello già nella collezione di Gabriele Vendramin (dove venne expertizzato come del Vecellio addirittura dal figlio di Tiziano, Orazio), poi acquisito proprio da Nicolò Renieri, il pittore e mercante fiammingo la cui figlia Lucrezia Pietro della Vecchia venne a sposare. Nota attraverso una copia già nella raccolta Kauffman a Berlino e poi a Roma (Marini, 1980), l’effige tizianesca venne integrata, come nel caso della tela ora analizzata, con l’aggiunta di alcuni dettagli che rendessero a un tempo filologica e distinta l’interpretazione offerta. Se ovviamente il pittore non poté spogliarsi del tutto della sua appartenenza a una cultura barocca (come testimoniano il forte risalto chiaroscurale di ascendenza caravaggesca, l’atmosfera plumbea e la psicologia lievemente caricata), seppe comunque raggiungere una resa ‘verosimile’ del modello, che risultò plausibile ai suoi tempi; e non solo ai suoi, visto che le due tele americane furono considerate autografe di Tiziano anche nel Novecento. Certo: considerando la reiterazione che sovente Vecchia fece delle sue più fortunate iconografie, non è possibile affermare con sicurezza che i due quadri già del Cavalier Fontana siano ora riconoscibili: ma che un simile fondale sia intuibile anche dietro al Giorgione qui ragionato (che stilisticamente sembra cadere più che bene sui primi anni ’40), mi par proprio di sì. Giulio Carpioni (Venezia 1613 – Vicenza 1679) Autoritratto Il dipinto viene riportato come autoritratto di Giulio Carpioni nel catalogo della galleria del conte Algarotti del 1776 “Carpioni jules sen propre portrait avec une grande chevelure, demi figure sur toile”, esso rimane all’interno della famiglia Algarotti – Corniani e poi per passaggi ereditari lo ritroviamo nella collezione Maria Berton, poi passato per acquisto nel 1985 in quella attuale. L’importanza e il valore dell’opera vengono testimoniate anche da una lettera dell’inizio del Novecento della soprintendenza di Venezia che chiede all’allora proprietario, in caso di vendita, di comunicare il nome dell’acquirente, così da non perdere le tracce di opera appartenuta alla galleria Algarotti. Ritengo che l’opera esposta possa corrispondere, come sostiene anche Giuseppe Maria Pilo (Pilo, 1961, p.111), all’Autoritratto dell’artista veneziano nonostante l’iscrizione, forse successiva, presente sul retro del dipinto “ritratto del pittore Carpioni / dipinto da lui stesso”. La giovane età del personaggio ritratto a mezzo busto, visto frontalmente, con la testa ruotata verso destra con lo sguardo fisso verso l’esterno, come in meditazione in una pausa fuori dal tempo, è ben evidente e testimonia comunque la realizzazione del dipinto nel periodo giovanile della produzione artistica del Carpioni. Similitudini fisionomiche sono presenti in altri due autoritratti del pittore, come in quello delle gallerie degli Uffizi, ora scomparso e in quello successivo conservato a Brera (Pilo,1961, p. 5). L’opera cronologicamente potrebbe essere collocata intorno al 1640-45, stilisticamente molto vicina alla Cleopatra, ora conservata a Schleïssheim presso le Gallerie Bavaresi. In questo dipinto giovanile sono presenti le suggestioni del realismo della pittura lombarda, acquisite sicuramente durante il suo soggiorno a Bergamo insieme al Padovanino, dove la luce che gioca un ruolo di prim’ordine permette di indagare la realtà con estrema lucidità. Antonio Visentini (Venezia 1688 – 1782) Frontespizio con i ritratti di Canaletto e Visentini La tavola, acquaforte e bulino, rappresenta il frontespizio della serie ‘Prospectus Magni Canalis Venetiarum’ edita a Venezia da Giovan Battista Pasquali in successive tirature dal 1735 al 1754. Sono raffigurati, in due cornici ovali riccamente decorate, i ritratti di Canaletto e Visentini, il primo autore dei dipinti originali delle vedute e il secondo autore dei disegni preparatori e delle incisioni all’acquaforte. L’effige di Canaletto è derivata da un disegno preparatorio di G.B. Piazzetta, mentre l’altra è stata disegnata dallo stesso Visentini. Al centro, fra i due, la fiamma ardente come in un focolare, è simbolo alchemico del fuoco della passione necessaria alla realizzazione dell'opera.  Pietro Longhi (Venezia 1701 – 1785) Ritratto di Francesco Guardi La tela, proveniente dalla collezione di Teodoro Correr, è di singolare interesse non solo per la rarità dei ritratti di Pietro Longhi, ma anche per la figura ritratta, Francesco Guardi, di cui costituisce l’unica immagine nota. La datazione dell’opera, 1764, offre un elemento sicuro per datare altri ritratti del settimo decennio , caratteristici per la pennellata costruttiva ma delicata, e sempre da considerare a modo di “ingrandimento” dei piccoli quadretti tradizionali (Genova, Venezia). Il quadro che il Guardi è in atto di dipingere è una veduta di Palazzo Ducale visto da San Giorgio, del tipo di quella distrutta al Museo di Strasburgo in un incendio del 1947. Pietro Longhi (Venezia 1701 – 1785) La presentazione prima del matrimonio (Giovani Grimani e Caterina Contarini) Il dipinto è un’istantanea ripresa durante il ricevimento prima del matrimonio tra Giovanni Grimani e Caterina Contarini (celebrato il 27 aprile 1750 a S. Trovaso). La giovane donna al centro della composizione indossa un vestito sontuoso da sposa ed è intenta a mostrarlo ai suoi ospiti. È colta in un atteggiamento quasi d’imbarazzo nel mettersi in mostra in questo modo, coperta da tutti i suoi ornamenti, una pettinatura intricata, i fiori sul petto e un orologio da taschino in vita che segna le 11. Un’altra giovane donna è intenta ad allacciarle una collana ed è proprio questo particolare che ci aiuta a identificare la scena. La scena documenta infatti i preparativi che precedono la celebrazione del matrimonio. L’usanza veneziana voleva che la madre della sposa le regalasse una collana di perle che doveva essere indossata per un anno intero dopo il matrimonio. Era normale che questo dono fosse testimoniato da numerosi ospiti, come si può vedere nella scena attuale. Il padre, sullo sfondo, fa cenno al cameriere di servire le bevande. Un’anziana governante, in piedi dietro e alla destra della sposa, regge lo strascico di seta bianca. La figura immediatamente a sinistra della giovane potrebbe essere lo sposo, che si è appena alzato dalla sedia, e, guardando teneramente la futura consorte, indica sé stesso con la mano destra. In primo piano a sinistra una donna che guarda timidamente verso l’osservatore è probabilmente la futura suocera. Suo marito, in piedi dietro di lei, spinge un giovane nipote in prima linea. La scena è completata sul lato destro dalla donna, forse la madre della sposa, che porta un vassoio con il bouquet nuziale. L’uomo in piedi, con marsina verse, dietro il padre della sposa, è probabilmente l’artista stesso, a giudicare dalla sua stretta somiglianza con altri autoritratti conosciuti. Quest’opera testimonia un’altra novità di cui Longhi si fece promotore: la moda anglo-francese per i ritratti di famiglia in interni domestici. Per la verità fu il pittore rococò Jacopo Amigoni (Napoli o Venezia 1682 – Madrid 1752) di ritorno da Parigi con gli incisori Joseph Wagner (Gestratz 1706 – Venezia 1780) e Charles Joseph Flipart (Parigi 1721 - Madrid 1797) ad introdurre questa moda, ma Longhi se ne fece promotore. L’opera in questione sembra dunque la fotografia istantanea di una famiglia nobile. Sembra probabile che la nostra immagine sia stata commissionata a Longhi dalla madre di Giovanni Grimani, Loredana Doudo, per celebrare il matrimonio di suo figlio. Il primogenito, Giovanni Grimani, nato il 25 agosto 1728, diventò senatore della Repubblica di Venezia. Nel 1750, si sposò con Caterina Contarini e dal loro matrimonio ebbero un'unica figlia: Loredana, sposatasi nel 1772 con Francesco Morosini di Santo Stefano, ambasciatore e Capitano Generale di mare. Loredana è ultima del casato Grimani dei Servi, con lei questo ramo si estinse. La committenza del dipinto in occasione del matrimonio tra Giovanni Grimani e la sua bellissima e sfortunata sposa, Caterina Contarini (che sarebbe morta di lì a poco dopo aver dato alla luce la loro unica figlia), ci permetterebbe di datare l’opera con buona precisione al 1750. Longhi è estremamente attento ai dettagli: ai ritratti dei diversi personaggi, le caratteristiche della varietà di broccati e sete, le rifiniture in pizzo, le decorazioni di un tipico palazzo veneziano fino al dettaglio della ventola appesa al muro. Qui è rappresentata una figura femminile che tiene un cerchio, simbolo dell’eternità, tema consono alla cerimonia di nozze che sta per essere celebrata. Il dipinto, pendant della tela Contadini che ballano la Furlana, sempre in collezione Zani, proviene dalla collezione Jack e Belle Linsky a New York. In un sonetto scritto nel 1750 in occasione delle nozze tra Giovanni Grimani e Caterina Contarini, Carlo Goldoni elogia l'arte del Longhi: “Longhi, tu che la mia Musa sorella chiami del tuo pennel che cerca il vero, ecco per la tua man, per mio pensiero, argomento sublime, idea novella. Ritrai tu puoi vergine illustre e bella e dolce di viso e portamento altero; pianger puoi di Giovanni il ciglio arciero, che il dardo scocca alla gentil donzella. Io canterò di lui le glorie e il nome, di lei la fè, non ordinario vanto: e divise saran tra noi le some. Tu coi vivi colori, ed io col canto: io le grazie dirò, tu l’auree chiome: e del suo Amor godran gli sposi intanto”. (aise)

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