“Qualche giorno fa mi è capitato personalmente di ascoltare il dialogo, all’interno di un grande supermarket della costa keniana, tra un italiano di una certa età (presumibile turista di lungo corso) e i suoi accompagnatori locali, un ragazzo e una ragazza. Il signore, ovviamente in un italiano fluente e spedito, affinché i suoi partner capissero meglio (!), si lamentava del fatto che un pacco di pasta da 1 chilo proveniente dal nostro Paese costasse ben 350 scellini. “In Italia la pago un euro e cinquanta, e di marche migliori!” diceva ai ragazzi, con tono sorpreso”. Il racconto è quello di Freddie del Curatolo, che nel suo editoriale pubblicato oggi sul portale di informazione MalindiKenya.net, riflette sui rincari ai prezzi dei prodotti italiani in Kenya e sulle conseguenze per gli imprenditori italiani nel Paese.
“I due keniani”, prosegue il direttore del giornale on line, “lì per lì avranno pensato che in Italia deve essere tutto più economico, ecco perché i mzungu sono più ricchi di noi. D’altronde già qualcuno ci aveva detto che lì una donna delle pulizie guadagna in una sola ora quello che noi portiamo a casa in due o tre giorni interi. Se poi da mangiare costa la metà, facile capire.
Ma non sottovalutiamo i giovani keniani, anche se sulla costa sono un po’ più ingenui e meno informati che a Nairobi: probabilmente, a differenza del soggiornante italico, conoscono le regole dell’importazione ed esportazione. Ad esempio, i keniani alla pasta preferiscono decisamente la polenta di farina di mais bianca. La consumano tutti i giorni, in famiglia o anche nelle loro trattorie, la famosa “sima” per fare l’ugali, ovvero la polenta con il suo sugo.
Un chilo di quella farina in Italia costa € 1.30, in Kenya meno della metà, ovvero Kes. 65 (circa 50 centesimi al cambio attuale). Ma il prezzo si riferisce a farina prodotta in Italia, come ad esempio quella dell’azienda Molino Peila, in provincia di Torino. Se si andasse a cercare la farina da ugali d’importazione, il prezzo salirebbe fino a € 5.90, per prodotti importati principalmente dal Venezuela. Alcuni anni fa, con mio grande stupore, in un supermercato per stranieri a Reggio Emilia, trovai una confezione di “Taifa”, la farina di mais bianca del Kenya. Costava esattamente il triplo che in Kenya.
Assolutamente naturale, dato che al prezzo di costo originale bisogna aggiungere i dazi doganali e le tasse della nazione in cui viene venduta.
Tornando al nostro pacco di pasta e al signore italiano, giovi sapere che una ditta di import-export di prodotti italiani, dopo aver acquistato i prodotti all’ingrosso nel nostro paese, deve riempire un container da 20 o 40 piedi, pagare il trasporto dai magazzini italici al porto di partenza delle navi cargo, il trasporto del container stesso e il trasporto finale dal porto di Mombasa al proprio magazzino in Kenya. Oltre ad un costo fisso per lo sdoganamento e le accise sui prodotti importati, a cui si aggiungeranno in un secondo tempo le imposte sui guadagni del venduto.
Questo iter che avviene da sempre, oltretutto, deve essere aggiornato continuamente con l’aumento delle accise e dei diritti di dogana che proprio all’inizio del 2022 hanno fatto segnare l’ennesima impennata e con l’inflazione. Il signore lamentoso probabilmente è in Kenya da poco e tornerà tra qualche mese in Italia, avrà quindi sperimentato come rispetto all’ultima volta che era qui, lo scellino sia notevolmente più debole e il potere d’acquisto dell’euro nei suoi confronti sia molto più forte.
Per chi, come me, vive qui tutto l’anno, i prezzi dei prodotti d’importazione sono aumentati in maniera ormai quasi insostenibile. Perciò se proprio la voglia di spaghetti o rigatoni mi corrode dentro, piuttosto che in un supermercato locale dove spenderei ancora di più, mi reco direttamente dall’importatore e faccio una pazzia. Poi vedo le olive taggiasche e i capperi siciliani (perché chi importa, ultimamente, importa pure cose giuste) e lascio in pegno il libretto della Toyota.
Certo, non si può vivere di solo chapati e di sole buonissime verdure.
La soluzione c’è, ed è la spesa intelligente. Intanto verificare chi sono quegli importatori italiani che continuano a fare salti mortali per garantire prodotti di qualità al minimo ricarico, con tutte le difficoltà del caso e spesso vengono trattati come usurai perché vino e olio extravergine di oliva costano il doppio che all’Esselunga.
Ma è anche piacevole imparare ad alternare, o mescolare gli irrinunciabili prodotti della Penisola con risorse locali. Ad esempio darsi da fare e andare a conoscere il pescatore che ti porterà una cernia a 3 euro al chilo (in Italia, nostrana 38 euro) e te la pulisce e sfiletta per 50 centesimi. O un polpo di 2 chili a meno di 10 euro (in Italia 80) e così via. E nelle penne rigate, mettere un ragù di pesce meno nobile, che costa ancora meno, al posto del tonno Riomare. Non vi piace il pesce? Polletto ruspante a 2.50 euro al kg, in Italia il pollo nostrano bio viaggia tra i 12 e i 16 euro.
Il Kenya è sempre più caro, specie per chi non lo sa vivere alla keniana. E per chi non sa o non ha voglia di fare la spesa a ragion veduta. Compreso l’acquisto di prodotti d’importazione”. (aise)
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