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MODA E ARTIGIANATO: Il panno casentino

MODA E ARTIGIANATO

Dal Messaggero di sant’Antonio per l’estero, febbraio 2021

Tessuto rustico utilizzato dai pastori nel Medioevo, dall’Ottocento in poi il panno casentino ha conosciuto una progressiva fortuna fino a divenire oggi un’eccellenza del made in Italy


Avete presente la scena di Colazione da Tiffany in cui Audrey Hepburn entra nella prestigiosa gioielleria avvolta in un cappotto doppiopetto rosso-arancione? Viene difficile credere che una stoffa così elegante diversi secoli fa rivestisse pastori e boscaioli in una vallata a nord di Arezzo. Eppure è proprio così. Il cosiddetto panno casentino dall’inconfondibile aspetto «a ricciolo» è in origine un tessuto da lavoro dalle molte virtù. Un’eccellenza italiana che nel tempo – grazie a quel suo aspetto grezzo, alla capacità di resistere alle intemperie e all’umidità – ha conquistato poeti e musicisti, nobili e attori. Tutto ha inizio a Stia (AR), un borgo cinto da foreste e attraversato da corsi d’acqua. Nel Medioevo quella località era ideale per l’allevamento della pecora casentinese. La stessa pecora che forniva la lana per confezionare il saio dei frati francescani. È proprio in quel periodo che si delinea una nuova ricetta per tessere la lana. Un procedimento complesso che permette di ottenere un panno infeltrito molto consistente e isolante. Secolo dopo secolo, il panno casentino acquista – dall’Ottocento in poi – sempre più prestigio. Fino a divenire un fiore all’occhiello dell’artigianato made in Italy. Un’eccellenza che, indossata da Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Gabriele D’Annunzio, ma anche, di recente, da Andrea Bocelli, Carla Fracci, Leonardo Pieraccioni – solo per citarne alcuni –, ha portato lavoro e fortuna nel casentino, intrecciandosi con le generazioni. Negli ultimi tempi, però, la crisi economica, acuita ancora di più dalla pandemia, si è fatta sentire anche a Stia. «Le prospettive sono molto incerte – conferma Claudio Grisolini, storico del panno casentino, membro del comitato scientifico del museo dell’arte della lana di Stia e titolare dell’azienda Tessilnova, tra le poche a produrre il panno –. Se finora siamo sopravvissuti e abbiamo incrementato la produzione allargandoci all’estero (in Europa, Giappone e Corea), il merito va al nostro prodotto “di nicchia”». Un tessuto naturale (lana al 100 per 100) legato a doppio filo al suo territorio. Un oggetto unico che torna sempre. Nella moda, nell’arte, nel cinema, nella letteratura. Vedere (o leggere) per credere gli abiti in casentino dipinti dal Bronzino nel primo Cinquecento, ma anche da Remo Squillantini quattro secoli dopo; il tessuto citato da Margaret Mazzantini in Non ti muovere; il soprabito marrone indossato dallo strozzino Savino Capogreco (l’attore Paolo Stoppa) in Amici miei – Atto II.

A una prima occhiata è facile lasciarsi ingannare dall’aspetto rustico del panno casentino. Eppure dietro quella stoffa secca a pallini si nasconde un lungo processo produttivo scandito in tredici fasi per una durata di due settimane (ogni ciclo produce circa 45 metri di panno). Una volta scelti, i fiocchi di lana vengono aperti, lubrificati e miscelati. Mescolate, compattate e districate, le fibre compongono il primo filato, che sarà poi ritorto su se stesso. Una volta divisi e arrotolati nelle rocche, i fili passano alla tessitura. Dal loro incrocio nasce il panno, che viene follato (infeltrito) con bagni di soda e sapone, lavato e strizzato, prima di essere tinto, spazzolato e asciugato. Superata la prova qualità, il panno viene fatto passare sotto una sorta di pietra levigante che crea i famosi riccioli (rattinatura) e rende la stoffa più morbida, calda e resistente all’acqua. Solo dopo essere stato vaporizzato e arrotolato, il tessuto è pronto per la distribuzione e la vendita (il prezzo varia dai 25 ai 30 euro al metro). «Il panno è prodotto con tecniche e risorse tipiche del territorio, come l’acqua, e maestranze storiche della tradizione di produzione» spiega David Savelli co-titolare della tessitura TACS. Ecco perché «è importante rispettare le fasi del processo produttivo», seppur utilizzando macchinari «moderni». Da qui l’idea di creare «la rete dei produttori del panno casentino» per certificarne la qualità.

Proteggere la tradizione, però, non significa restare ancorati al passato. Lo sanno bene gli artigiani casentini che di recente stanno puntando sulla versatilità. «Oltre al solito cappotto, produciamo scarpe, cappelli, borse… persino una tuta da sci! – conferma Claudio Grisolini –. Ho utilizzato il panno per realizzare giacconi destinati a una spedizione artica, per foderare una carretta e per vestire una statua». Ma c’è una cosa, in realtà, che Grisolini ancora non è riuscito a fare… «Ad oggi la lana che utilizzo per creare il panno viene da Australia, Nuova Zelanda e Sud America. In passato, però, il panno casentino veniva prodotto con la lana delle pecore locali, pecore sempre più rare dalle nostre parti. Il mio sogno è ricrearne un allevamento capace di fornire lana autoctona a tutto il territorio. Fin dall’epoca etrusco-romana il casentino è stato famoso per le sue lane. Forse è giunto il momento di tornare alle origini». (Luisa Santinello – Il Messaggero di sant’Antonio, edizione italiana per l’estero /Inform)


25/02/2021

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