di Maria Teresa Zonca
NEW YORK\ aise\ - “Uno schiaffo alla mancanza di empatia. Forte. Travolgente. Di quelli che scuotono anime e coscienze. “To my Pink Lady” racconta il tempo, quello che ci si illude di avere e che spesso non c’è più. Con una spettacolare fotografia di Carlo Rinaldi, parla attraverso immagini e sguardi di malattia e morte, ed è dedicato a una donna. Per Alexo Wandael, fotografo e regista, una musa. Si chiamava Cristina Belenchia. Avvocato civilista di Milano, aspirante blogger, raccontava il cancro e la leucemia in un suo diario, “My pink chemio”. Non è sopravvissuta. E Wandael ne trasferisce gli stati d’animo in un racconto breve, ma intenso, fatto di presenze e affetti, di sguardi e ricordi”. Così scrive Maria Teresa Zonca su “La voce di New York”, quotidiano online diretto da Stefano Vaccara. “All’Istituto Italiano di Cultura di New York, intervistato da Maria Teresa Cometto del Corriere della Sera, ha ripercorso la storia personale di amicizia che lo ha legato a Cristina, conosciuta a New York, nel West Village. Un incontro che ha scavato nei suoi sentimenti quando ha saputo della sua morte. Da qui l’idea di tradurre in immagini le sensazioni profonde del distacco, la potenza dello scorrere del tempo, così come la sua relatività. Alexo Wandael è nato a Bolzano e dopo la laurea in architettura a Ferrara ha lavorato a Berlino per tre anni. Sempre come architetto si è trasferito a New York, dove nel tempo è passato alla fotografia di moda, anche per Vogue. Dalla moda al reportage: nel 2013 è stato in Afghanistan per raccontare le donne soldato e poliziotte e le carceri femminili. Poi il salto, l’esigenza di trasferire la sua arte in video. “Mi sono trasferito per dedicarmi alla mia carriera – ha raccontato quando gli è stato chiesto perché ha lasciato New York – L’industria del cinema è a Los Angeles, lì ci sono le opportunità di conoscere, studiare, realizzare”. Ed è proprio lì che ha conosciuto la nipote di Carlo Rambaldi, l’attrice che ha recitato la parte di Cristina in “To My Pink Lady”. Sempre a Los Angeles, non appena arrivato, Wandael ha avuto l’ispirazione per il docufilm “Tomato Soup in Skid Row”, il suo secondo lavoro proiettato nella serata che si è svolta a Park Avenue. “Non potevo non notare tutti quegli homeless – ha spiegato – Dal primo momento mi sono reso conto del contrasto di quella città: da una parte il cinema, il lusso, il denaro, dall’altra la strada”. E così Wandael ha messo insieme numerosi scatti in bianco e nero ed è partito da lì, da sguardi e dettagli. Per poi passare alle interviste ai senza tetto, che hanno raccontato, non senza difficoltà, come la loro vita sia diventata cruda, difficile, invisibile ai più. “Ci sono voluti tre mesi, non è stato facile per loro” ha detto Wandael, che non soltanto ha ripreso testimonianze di tragedie familiari, disoccupazione, violenze, ma ha voluto metterle in contrapposizione con chi osserva senza comprendere e vive il sogno americano guardandone soltanto gli aspetti apparentemente più affascinanti, senza provare a mettersi nei panni degli altri. A marcare ancor più il distacco tra i senzatetto, e con il protagonista-osservatore, colui al quale uomini e donne raccontano le proprie vite, è il rosso vivo di una zuppa di pomodoro. Rosso nel bianco e nero del video, assaporato lentamente, intriso di indifferenza e superficialità. “Si certo, mi sono ispirato a Andy Warhol e alla sua Campbell’s” ammette Wandael. Perché la zuppa di pomodoro, diventata immagine pop, è una delle poche cose che gli homeless si possono permettere. Il fotografo e regista italiano ha dedicato il suo lavoro a quei “tre senzatetto che ogni giorno muoiono sulle strade di Los Angeles”. Lo ha fatto snocciolando numeri e cause dei disagi e spiegando come in America, si quella dei sogni, ci siano più che altrove persone in carcere e centinaia di migliaia di uomini e donne invisibili, a cui manca ad oggi un supporto concreto”. (aise)
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